All’indomani dell’ennesimo femminicidio, tanto atroce quanto assurdo, che ha coinvolto due adolescenti in età scolare (allarmante l’abbassamento di quest’ultima, indice di un progressivo scollamento dal senso della realtà), da più parti si levano immancabili le voci che chiamano in causa la scuola e il suo ruolo educativo. Tornano dunque sulla scena le proposte ministeriali relative all’ “ora dell’educazione alle relazioni”, con tutto il loro contorno di dibattiti più o meno ideologizzati e strumentali. E’ un terreno intricatissimo, fatto di molti non detti, altrettanti malintesi e di un patto sociale -vale la pena chiarirlo subito- tutto da ricostruire.
C’è chi direbbe, pur con una certa approssimazione, che un tempo certe cose non si esplicitavano eppure funzionavano. Una di queste era proprio il ruolo della scuola nel trasmettere valori di convivenza civile e sociale, che fino a qualche decennio fa era ritenuto naturale e indiscutibile, così come lo era il rispetto quasi dogmatico riservato a docenti, dirigenti e personale della scuola. L’indisciplina c’era, il “nonnismo” pure, si copiava, si suggeriva, si litigava, ci si prendeva in giro, ci si distraeva e si “bigiava”, ma il rispetto fra i banchi era un presupposto inutile da sottolineare e ribadire a ogni piè sospinto. Lo si imparava ex se, era un bagaglio che poi, nella maggioranza dei casi, ci si portava dietro in tutti gli ambiti della vita, dal lavoro ai rapporti più informali. Era, appunto, naturale.
Le cose però sono cambiate. Senza indugiare in analisi sociologiche o, peggio, in patetiche laudationes temporis acti, si potrebbe chiosare che l’educazione (latamente intesa) è una di quelle cose di cui si inizia a parlare quando se ne percepisce l’assenza. D’altra parte siamo così sicuri che introdurre l’ennesima “ora” a scuola rappresenti la soluzione a tutte le sciagure? Non si intravede il concreto rischio di lavorare “per aggiunta” senza afferrare il vero obiettivo, finendo per accumulare ore su ore di “educazione” che finiscono per essere percepite come semplici formalità da espletare alla bell’e meglio mentre per il resto del tempo gli alunni scherniscono i docenti, fanno video per i social, aggrediscono, sproloquiano, corrono da mamma e papà alla prima nota e via discorrendo?
Un dato è, a nostro parere, incontrovertibile: la scuola non dispone degli strumenti (tecnici, professionali e forse neppure culturali) per farsi carico in toto di problemi e situazioni che hanno radici ben più profonde. Sono ben noti gli studi che attribuiscono all’ambiente scolastico un ruolo non primario nella formazione della personalità dei ragazzi. Il pionieristico Rapporto Coleman insegna: già nel 1966 spiegava, dati alla mano, che intervenire nella qualità degli edifici scolastici, nelle tecnologie dell’istruzione, nel cambiamento dei programmi serviva a poco se non si agiva prima e contemporaneamente nei contesti sociali e familiari dei singoli studenti.
Difatti. La scuola -al di là del proprio ruolo principe di “alfabetizzazione culturale”- ha sì un compito educativo, ma non può sostituirsi ad altri enti che dovrebbero trasmettere valori fin dalla prima infanzia, le famiglie innanzitutto. I principi fondativi dell’individuo si imparano lì, così come lì si pongono le basi del rispetto nei confronti dei pari e, anche, della scuola.
Un’altra cosa va detta: quand’anche la scuola cerca di esercitare un ruolo educativo, siamo così sicuri che le famiglie siano disposte ad accettarne anche il minimo, doveroso intervento? Episodi (tutt’altro che isolati) come quello dell’aggressione a pugni in faccia ai danni del dirigente dell’istituto genovese Bergese per una banale nota sul registro la dicono lunga: dal nord al sud della Penisola centinaia di dirigenti scolastici e docenti ogni anno lamentano le improvvise irruzioni a scuola di genitori imbufaliti per provvedimenti anche banali. E così, se da un lato la scuola è esautorata nei fatti dal proprio ruolo educativo, tanto da essere messa in discussione anche violentemente alla minima nota disciplinare e al più lieve “segno rosso”, dall’altro -incoerentemente- si pretende a gran voce che lo eserciti nell’ottica di scongiurare drammi e tragedie che hanno ben altra origine. Cerchiamo almeno di metterci d’accordo con noi stessi.
Senza dilungarci troppo, non sarebbe forse il caso di ripetere a chiare lettere e con estrema onestà intellettuale che la scuola non ha gli strumenti per fronteggiare questa nuova complessità? Che non può essere lasciata sola nel suo ruolo di frontiera che fra l’altro, quando esercitato, non viene neppure accettato da famiglie che si sentono messe in discussione nella propria genitorialità? Come ogni situazione complessa temiamo che non si possa ridurre ai singoli elementi che la compongono, ma che vada affrontata, ancora una volta, in una prospettiva sistemica che parta da una nuova consapevolezza del ruolo della famiglia per rinnovare il patto educativo.